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LA STORIA TRAMANDATA.
La tradizione popolare vuole
fissare la nascita di Monastero Bormida ai primi anni di episcopato del
santo Guido da Melazzo, vescovo di Acqui Terme tra il 1034 e il 1070 e
poi riconosciuto patrono della città e della diocesi: essendo la
madre del santo vescovo, originaria del territorio di Monastero Bormida
(precisamente di San Desiderio, ex sede pievana del monasterese e importante
borgo storico a pochi chilometri dal paese), il figlio, non appena salito
al soglio acquese, volle tradizionalmente onorare la terra d'origine materna.
Lo fece chiamando i monaci benedettini di Fruttuaria, grandi edificatori
di impianti sacri (gli stessi che, non molti anni prima, avevano costruito
la cattedrale ad Acqui), ordinò loro la costruzione di un monastero
proprio in quei luoghi, per bonificare le terre e radunare i contadini
intorno al cenobio. La tradizione popolare, non confermata da alcuna fonte
documentaristica, è obiettivamente da considerarsi tale e nulla
più, almeno per il rapporto tra la fondazione del monastero e le
origini materne di San Guido. La realtà dei fatti, però,
può non essere molto distante dal racconto tradizionale appena riportato.
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IL TERRITORIO E LE INCURSIONI
SARACENE.
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Bisogna innanzitutto tenere conto della
situazione storica dell'Italia nord occidentale prima dell'anno mille:
il regno longobardo si diffonde in tutto il nord, ed in particolare, nell'area
che interessa a noi, in tutto il Piemonte, Valle d'Aosta e Liguria, con
la massima espansione e floridezza intorno all'VII-VIII sec. d.C. Il territorio
fa parte della quinta regione longo-barda , quando iniziano, dal versante
alpino occidentale, le terribili incursioni saracene; una prima nel 9o5,
attraversando le Alpi all'altezza di Susa e dilagando in tutto il Piemonte,
fino ad assediare Acqui; una seconda nel 936 pone il secondo assedio alla
città termale, che però riesce ad avere la meglio. Ben più
distruttiva delle altre, la terza incursione, del 945, segna lo sfascio
del sistema urbanistico e sociale non solo dell'acquese: il panorama fu
quello di una desolazione completa, di una distruzione pressoché
totale, in particolar modo dei luoghi del culto cristiano (le diocesi di
Acqui, di Alba e di Tortona sono letteralmente messe in ginocchio), ma
più in generale di tutta la struttura urbana e rurale prima esistente:
tanto è vero che, si racconta, il già potente vescovo di
Alba, all'indomani dell'incursione saracena, dovette iniziare a lavorare
egli stesso le sue terre per sopravvivere, tanta era diventata la sua povertà;
e l'imperatore teutonico Carlo X, nell'investire nel 992 Aleramo della
marca del Monferrato savonese, definisce queste terre "deserti loci", ovvero
"luoghi desolati". All'indomani della totale distruzione saracena dell'Italia
nord occidentale iniziava, con l'iniziare del mille, anche la grande ricostruzione.
E primi fautori della ricostruzione furono proprio i monaci, che vennero
invitati dai vari vescovi dei "luoghi desolati" a riurbanizzare gli stessi,
ricostruendo immediatamente monasteri e pievi distrutti . Così,
in una delle aree più colpite dalla furia araba, la diocesi di Acqui,
il neovescovo Guido può davvero aver comandato la costruzione di
un cenobio benedettino, proprio per "disboscare i luoghi, rendere coltivabili
ed abitabili le terre", come narrava la tradizione (o ricostruzione, azzardando
l'ipotesi di un impianto di origine longobarda preesistente, tenendo presente
anche che, in genere, le edificazioni dei luoghi sacri distrutti, in questo
periodo, avvengono molto spesso su rovine precedenti, piuttosto che in
luoghi diversi ). In ogni modo, in conclusione, si può ipotizzare
(forse un po' arditamente, basandosi sui rapporti fra il regno longobardo
e Santa Giulia, già nel mille santo titolare del cenobio benedettino
monasterese) una qualche presenza longobarda sul posto (V-VI sec. d.C.),
ma sembra fuori di dubbio, anche se in assenza di attestazioni oggettive,
l'erezione, nei primissimi anni del mille, di un monastero benedettino
dedicato a Santa Giulia , intorno al quale ben presto si raccoglie il contado
sparso nelle campagne, fino a formare il primo nucleo urbano del paese.
L'edificazione interessò quasi certamente i monaci artisti di Fruttuaria
in Canavese, che avevano attestata la giurisdizione su questo convento
, come già anche su altri della zona (ad esempio Santa Giulia di
Dego e San Pietro di Melazzo ).
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la torre campanaria dell'antica
abbazia di s. Giulia (sec. XI)
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L'INSEDIAMENTO MONASTICO: DAL
MEDIOEVO AL RINASCIMENTO.
É di questa prima fase la costruzione
della chiesa e del palazzo abbaziali, dei quali restano comunque ancora
oggi evidenti tracce: della chiesa è visibile ancora la torre campanaria
l'attuale torre del castello, in stile di caratteristiche lombarde, databile
appunto all'inizio dell'XI secolo, cui sono coeve alcune strutture di fondamenta
dell'odierno castello, già palazzo abbaziale, nascoste ormai in
gran parte dai continui, spesso drastici, rimaneggiamenti successivi. Di
poco successivo (circa XII secolo) è invece il ponte sul fiume Bormida,
a quattro arcate in pietra, sempre dovuto ai monaci benedettini; un suo
analogo lo troviamo non molto lontano, a Spigno Monferrato, opera anch'esso
di un importante insediamento monastico: quello dei benedettini di Santa
Giustina. Da quello monasterese, quest'ultimo si differenzia solo per le
dimensioni di poco più strette e per la presenza, sul colmo, di
due piccole cappellette prospicienti, anzichè una sola. I monaci
benedettini mantennero il dominio sul complesso religioso e sulle terre
ad esso dotate, sebbene con la già vista subdizione ai fruttuariensi,
fino al 1393. Dell'anno successivo è una investi-tura di papa Bonifacio
IX con cui i marchesi Antonio e Galeotto del Carretto, discendenti del
grande Aleramo e di Bonifacio del Vasto, sono riconosciuti temporaneamente
signori del luogo detto "Monastero di Santa Giulia", con l'obbligo di fortificare
queste terre e renderle difensibili con le armi . E proprio questo i Del
Carretto fecero: di questi anni (1393-1405) infatti è il primo,
e senz'altro più importante, intervento architettonico sul palazzo
abbaziale, mirato a trasformarlo al meglio in una casa fortificata , probabilmente
anche con un cordone di mura intorno, di cui comunque non resta traccia
(la porta che resta oggi vicino all'angolo est del castello è infatti
successiva, almeno cinque-seicentesca). I lavori furono talmente profondi
e impegnativi che il successore di Bonifacio IX al soglio pontificio, Innocenzo
VII, trasforma l'investitura di Antonio e Galeotto Del Carretto da temporanea
a perpetua . Inizia così con la più importante famiglia monferrina
la lunga storia feudale di Monastero Bormida. Il primo dominio diretto
dei Del Carretto è però di breve durata, passando ben presto
la possessione feudale prima agli Scarampi, poi agli Spinola, ai Malaspina,
ai Guasco di San Giorgio (il tutto tra il 1429 e il 1433 solamente). Nel
1448 il feudo torna ai Del Carretto, attraverso il matrimonio tra Giovanni
Bartolomeo e la marchesa Lucrezia Paleologo di Monferrato. Di nuovo però
la sorte non vuole favorire gli aleramici: Lucrezia, rimasta vedova di
Giovanni Bartolomeo Del Carretto, nel 1472 sposa in seconde nozze il fratello
del duca Ercole I di Mantova, Rinaldo D'Este, mantenendo anche questa volta
il feudo di Monastero Bormida come dote. Attraverso anche vari riconoscimenti
pontifici (da Sisto IV a Innocenzo VIII), resta attestato in seguito (fino
alla fine del '700) l'infeudamento di Monastero Bormida alla famiglia Della
Rovere, partendo da Giovanni, attestato già nel 1484 , fino a Francesco
Maria Ludovico a metà del '700 . É all'inizio di questo grande
periodo roverasco che risalgono le prime stesure degli Statuti di Monastero
Bormida: se ne ha notizia già nel 1596 , in una richiesta al Senato
di Casale per ottenere la ricon-ferma di statuti ancora precedenti, ma
la prima, ed unica, forma di cui disponiamo integralmente è quella
di una versione del 1664 formata su uno stereotipo in uso contemporaneo
anche in altre comunità monferrine.
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il complesso monumentale (ponte sulla Bormida
e Castello Medievale) visto dalla riva meridionale
del fiume
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DALLE GUERRE MONFERRINE AI GIORNI
NOSTRI.
Di pochi anni successiva, proprio
nel periodo in cui Monastero Bormida ospita di nuovo una congregazione
monastica , è la costruzione della attuale chiesa parrocchiale,
non però del tutto nelle forme odierne: la fondazione del 1699 (tale
data riporta la trabeazione in pietra del portale ) era infatti ad una
sola navata, con due serie laterali di quattro cappellette ciascuna, e
priva di campanile (sostituito dalla torre del castello fino al 1923, quando
l'attuale campanile viene eretto, insieme all'impianto delle due navate
laterali). Uno degli altari laterali scioglieva un voto fatto dalla comunità
di Monastero alla Madonna Assunta, per una scampata peste e recava, ora
distrutto, per la prima volta lo stemma a nove croci bianche in campo rosso,
e punta gialla, designante la popolazione monasterese, e attualmente assunto
come stemma del Circolo "Augusto Monti". I primi del '600 sono gli anni
delle grandi scorrerie armate nelle nostre valli, e Monastero non ne è
certamente escluso. La stagione bellica si inaugura nel 1612 con la prima
guerra di successione al ducato di Monferrato, che vede impegnati Carlo
Emanuele di Savoia e il cardinale Ferdinando Gonzaga; nel '14 un secondo
impegno bellico occupa il duca di Savoia, questa volta contro il governatore
di Milano, ma sempre combattuto nelle nostre valli; nel 1625 è la
volta delle ostilità con i genovesi, mentre l'anno successivo il
bellicoso savoiardo si impegna nella seconda pretesa di successione nel
Monferrato, osteggiando i presunti diritti di Carlo di Nevers. In tutti
questi anni sulle nostre terre si rincorrono, ora alleati di uno, ora dell'altro,
truppe francesi e spagnole: rilevante per Monastero Bormida, all'interno
di questo scenario, è la serie di eventi militari occorsi in occasione
dell'assedio di Bistagno da parte delle truppe francesi, nella Pasqua del
1615, osteggiato proprio dagli avamposti spagnoli di Monastero. La stagione
di calamità non era però conclusa: nel 1631 una grande epidemia
di peste si abbatte su queste terre , provocando gravi carestie, morte
e povertà. La chiesa rurale di San Rocco, lungo la strada per Roccaverano,
mostra ancora oggi sulla sua facciata lo scioglimento di un voto fatto
in quell'occasione dai monasteresi: una lapide ringrazia l'intercessione
del santo pellegrino, per avere limitato a Monastero gli effetti disastrosi
della peste, mentre tutti i paesi circostanti ne erano usciti decimati
e stremati. La fine del XVIII secolo porta a Monastero Bormida il vento
rivoluzionario francese, che soffia instancabile in tutta l'Italia nord-occidentale.
Lo testimoniano ancora alcuni documenti di quell'epoca, conservati nell'Archivio
Storico Comunale, che, rivelando l'influenza d'oltralpe in questi territori,
riportano le date con i nomi rivoluzionari dei mesi . La famiglia Della
Rovere mantiene ancora almeno fino alla seconda metà del secolo
scorso, la proprietà del castello, pur avendo perso i diritti feudali
acquisiti quasi quattro secoli prima, dopodichè il castello, passato
per un certo periodo alla proprietà privata della famiglia Polleri
di Genova, viene acquisito a proprietà pubblica nei primi decenni
del '900.
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I DINTORNI MONASTERESI.
Nel contado di Monastero Bormida,
spetta un posto importante nella tradizione storica del paese alla Chiesa
(ex pievana) di San Desiderio, la più importante delle chiese extra
muros di Monastero Bormida perchè sorge nel luogo originario della
prima chiesa pievana della zona, senz'altro precedente ancora all'impianto
benedettino del paese vero e proprio: la cronaca storica di Frate Jacopo
da Acqui riporta a questo proposito che Ludovico di Provenza (incoronato
imperatore da Papa Benedetto IV a seguito del suo impegno nella lotta contro
i Saraceni), durante la visita ad Acqui Terme nel 901, abbia anche soggiornato
ospite di un contadino nei pressi della Pieve di San Desiderio . Per molto
tempo la Pieve rappresenta il vero centro di riferimento del paese, sia
religioso che sociale, fino all'epoca dei comuni (XI sec. circa), con la
creazione di un centro urbano vero e proprio: le pievi perdono d'importanza
per la istituzione delle parrocchie, che spostano l'attenzione dei fedeli
dalla aperta campagna al centro abitato, cosicché le sedi pievane
si trasformano molto spesso in chiese cimiteriali (vedi San Giovanni di
Roccaverano, la ex pievana di Bistagno, e molte altre), ma anche si riducono
a semplici chiese rurali, come a Cortemilia, ad Arzello e, appunto, San
Desiderio a Monastero Bormida. L'edificio attuale, a pochi chilometri dal
paese in direzione di Ponti, risale al 1719, cui ancora successivamente
fu aggiunto il portico antistante in pietra.
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