"(…) possiamo abbandonarci all’ammirazione che il tacco merita: meraviglia di statica e di modulazione di linee, eleva dal suolo un fusto sottile che salendo si dilata e nello stesso tempo si inclina all’indietro; le sue nervature si divaricano e si cabrano lievemente (…).Dal più alto del tacco discende a terra una campata di ponte inclinato o toboga capovolto (…)" Italo Calvino
"(…) il risultato prevedibile una volta conclusa l’opera, era stato un edificio dalle pareti storte che avevano pensato di nascondere ricoprendole con edera." (Isabel Allende, "D’amore e ombra")
La comunicazione di cui parlavo precedentemente assume ancora una volta un aspetto duplice, se si tiene presente che essa deve in primo luogo avvenire tra fruitore ed oggetto ed in secondo luogo tra il nuovo insieme oggetto-fruitore e tutto ciò che si trova all’esterno di tale insieme. Quindi, a mio parere, è necessario muoversi lungo due direzioni, soggettivamente ritrovate nell’immagine del ponte per quel riguarda lo spostamento orizzontale ( dall’insieme oggetto/fruitore verso l’esterno e viceversa), e nell’immagine della pianta rampicante per ciò che concerne il movimento verticale (dall’oggetto al fruitore e viceversa).
Il ponte per me rappresenta il simbolo della comunicazione cercata, voluta in quanto costruita artificilmente laddove l’artificio sta a significare la volontarietà, il viaggio ricercato, il mezzo per il superamento dell’ostacolo, ciò che consente la continuazione del cammino e quindi la ricerca la conoscenza l’apertura verso lo sconosciuto ed, insieme, la disposizione a lasciarsi conoscere; ma nello stesso tempo, vedo nel ponte la creazione di un nuovo luogo dato dall’interazione di esso con uno spazio generico, secondo il concetto Heiddeggeriano : "un ponte non viene posto in un luogo preesistente: quel luogo non esiste prima del ponte. Esistono forse numerosi spazi lungo il fiume, ma solo uno di loro, grazie al ponte diventa luogo". Dividere dagli ostacoli e nello stesso tempo inglobarli ponendo in comunicazione volontariamente, artificialmente ciò che altrimenti non lo potrebbe essere, diventare un sistema dinamico acquistando significato dall’interazione con chi il ponte lo usa e connotando al tempo stesso un ambiente senza il quale non avrebbe nemmeno senso di esistere sono contraddizioni che spiegano il significato e la simbologia del ponte, riscontrabile per altro in quella contraddittorietà che caratterizza, come già spiegato, anche l’oggetto che ho scelto di progettare; il movimento che io associo al ponte è infinito e contingente, pur trattandosi evidentemente di un oggetto immobile, perché rappresenta il movimento di chi lo percorre, diventando il simbolo della comunicazione anche in senso lato, è un movimento infinito dato dalla circostanza precisa in cui ci si trova e dalla necessità di proseguire il viaggio in una direzione piuttosto che in un’altra o dalla volontà di scegliere una di tali direzioni, e sarà dalla scelta compiuta, dalla volontarietà della distesa di un ponte che si percorrerà una via diversa da ogni altra in un istante preciso che condizionerà la storia unica di ciascun viaggiatore, mai uguale ad alcun’altra né mai uguale a sé stessa e dove gli artefici di tale storia saranno in egual misura il viaggiatore e tutto ciò che sta al di fuori di esso: diceva Kafka, nel racconto "Il ponte", che nell’identificarsi dell’uomo nel ponte, o viceversa ("ero rigido e freddo, ero un ponte, stavo sopra un abisso. Di qua avevo le punte dei piedi, di là avevo confitto le mani, e mi tenevo rabbiosamente aggrappato all’argilla friabile."), il crollo avviene proprio quando il ponte cede alla paura umana e si volta, quando cede alla tentazione di muoversi. Se dunque il ponte rappresenta questa possibilità di movimento contingente, di cambio di direzione, di scoperta , di reazione ed adattamento e quindi di decisione, di possibilità concreta di operare una scelta, manca di valutare come le conseguenze di questo viaggio-interazione si manifestino e come visibilmente diano dei frutti nella storia personale di ciascuno, come il movimento, il cambiamento si rendano evidenti, come cioè agli incontri fatti nel muoversi omnidirezionalmente lungo un percorso verticale, possano corrispondere delle risposte e più o meno evidenti e tangibili in grado di rilanciare output e rendendo infinito uno scambio che non permetterà mai alla progettazione di esaurirsi.
Questo è l’aspetto che a mio parere riesce a rendere manifesto l’immagine del rampicante che ha qualcosa in più oltre che racchiudere in sé tutta la complessità che è già propria di una pianta con le stesse caratteristiche che mi hanno condotto stranamente a scegliere il ponte secondo un’associazione non immediatamente leggibile, come il suo interagire, ancora una volta, con tutto ciò che la circonda secondo quell’idea di scambio reciproco e quindi di nutrimento reciproco con conseguente crescita o il concetto della contaminazione, della connotazione o, ancora, l’idea della immobilità apparente e infine il sapere racchiudere concetti contraddittori come l’unione e la separazione, dove nel caso della pianta questo sta nel mettere in comunicazione radici e foglie e quindi terra e cielo e quello che più colpisce è che proprio per queste ragioni ciascuno individuo, pur essendo riconoscibile in una specie, ha caratteristiche uniche e per l’appunto risulta essere un individuo. Esiste, però, una componente fondamentale che distingue i due catalizzatori e cioè, che se del ponte mi affascina l’evidenza del suo essere artificiale ovvero la volontarietà che si trova implicita in quest’opera e il movimento che vedo nel ponte è simbolico o meglio è il movimento che su di esso viene compiuto, quello che mi attrae della pianta è la sua organicità ovvero la vitalità che se non toccata può raggiungere impensabili livelli di caos e una morfogenesi continua. Questa crescita indefinita è il rampicante, secondo me, a evidenziarla maggiormente; il rampicante ha un elemento in più rispetto ad un'altra pianta e cioè la capacità di attaccarsi di produrre parti che ancorano il suo cammino, dove questo ancora una volta implica una sorta di scelta, di volontarietà e di contingenza, di cambio di direzione e imprevedibilità, ma ora, compiuta attivamente dal soggetto, ciò non solo rende evidente il movimento continuo, ma ancora meglio, evidenzia la scelta direzionale anche a seconda dell’appiglio che trova per ciò rispetto ad un’altra pianta il rampicante ha un carattere di interazione con l’esterno che è di molto superiore, spesso si forgia a immagine e somiglianza del proprio appiglio e, a seconda di esso, può dare origine a scelte direzionali sempre differenti, ma quel che più conta è che tanto più il percorso diventa complesso, al punto da differenziare sempre più un individuo dagli altri, tanto più l’appartenenza a quella precisa specie si rende più evidente. Questo è quello che vorrei avesse il mio oggetto questa vitalità acquisita proprio nel riuscire a "rispondere", sottoponendosi a infinite morfogenesi e cambi di direzione, acquistando contemporaneamente in individualità e in riconoscibilità, quindi che siano presenti la mobilità che è solo simbolicamente riposta in un oggetto artificiale, facendo da veicolo per una serie di stimoli scambiati, e la mobilità effettiva e tangibile tipica di un organismo vivente. Questo, per rendere davvero infinita la morfogenesi e l’evoluzione progettuale di un oggetto anche oltre la mano del progettista in modo che ciascuno oggetto possa forgiarsi ed evolversi continuamente anche nelle mani di chi lo usa, diventando sempre maggiormente uguale solo a sé stesso e, grazie a questa caratteristica, acquisti riconoscibilità nella sua specie.